Qui in Sicilia, in un tempo molto antico, all’inizio della primavera, i pesi del telaio erano appesi agli alberi, al limitare delle radure coltivate ovvero al sommo delle colline prospicienti le valli, in modo che il loro dondolare ritmico – del quale ognuno di essi era intriso, avendo sempre penzolato da un telaio- venisse trasmesso dal vento alla terra, per incoraggiarla a sviluppare la vegetazione.
Il nesso magico (o augurale, se preferiamo) era quello di trasferire l’energia della tessitura dal telaio al suolo fertile. Non sono sicuro che l’analogia fra le due cose sia chiara anche per l’osservatore di oggi, perciò provo a spiegarla.
Il tessere è attività femminile e la donna col suo movimento regolare crea la forma ed il disegno specifico di un tessuto. Ugualmente la Madre Terra, quando mette mano ai semi, li tesse con un moto regolare, ognuno secondo la sua trama, e per ognuno di essi produce una specifica forma.
In altri termini, c’è un’energia generatrice della forma (che la fa nascere, la fa crescere, la porta a compimento ed infine la disfà) e questa energia è femminile. Bene, questa energia che si genera nella stanza del telaio, sorretta e “simbolicamente contenuta” nel movimento dei pesi, viene poi indirizzata alla terra, come una benedizione degli uomini ed un augurio fiducioso che anche il suolo fertile produca felicemente in analogo modo.
Ovviamente la tela, essa stessa, è satura dell’energia femminile. Infatti un drappo tessuto da una adolescente, era da lei offerto ai templi della Dea, per favorire la fertilità personale e l’armonia delle sue future relazioni familiari.
A questo punto, una notazione ci interessa: come erano fatti questi pesi da telaio?
Originariamente delle piccole pietre, furono poi sostituiti da forme di ceramica grezza, modellate in genere a tronco di cono, ove era praticato un foro nella parte alta, quella più stretta, attraverso cui esso veniva appeso a pendere al filo della trama.
Talvolta, alla fine della tessitura di una stoffa importante, l’ultimo peso non veniva tagliato dalla tela e restava a penzolare fuori, come una specie di marchio di fabbrica, una firma del telaio da cui proveniva.
I templi delle Dee femminili si arricchivano, nel tempo, di tele votive e, per tale motivo, negli scavi archeologici di questi edifici si trovano pesi da telaio in abbondanza (al posto delle tele, intanto completamente disfatte e scomparse).
Ora avvenne che, intorno al VII secolo avanti Cristo, fra le popolazioni sicane, al contatto con la civiltà greca, si sviluppasse un altro nesso analogico che coinvolse all’inizio i nostri pesi da telaio, ma generò poi un tipo similare di piccoli manufatti di argilla grezza, ma differenti da essi.
Gli oggettini a cui mi riferisco sono di dimensione simile ai pesi (che essi possono sempre virtualmente sostituire in un telaio), ma sono a forma di disco e portano due fori decentrati che stanno, del disco, allo stesso posto in cui stanno gli occhi in una faccia, in modo che, a guardarli, questi dischetti simulino e rappresentino appunto dei piccoli volti inespressivi e muti.
Per capire la funzione di questi “piccoli volti”, bisogna stavolta cogliere il nesso tra il movimento del telaio ed il movimento ripetitivo che si forma dentro la mente umana.
Chiamarono i greci questo funzionamento “personalità”, che vuol dire “maschera”.
Il nostro identificarci infatti con il ruolo ed il volto della nostra storia personale è ciò che copre il nostro vero volto innato e divino.
In questa personalità, in questa maschera, vi sono movimenti ripetitivi della mente che bloccano le nostre percezioni su oggetti e generano i problemi. Che farne di questi problemi? Sbarazzarcene, offrirli al Dio perché lui li risolva.
Si andava in un posto saturo di energie sacre, pertanto, presso una fonte o un fiume…
Si legava una cordicella di rafia ad uno dei fori del nostro dischetto e lo si lanciava oltre un ramo di un pino. Quando ricadeva, si regolava all’altezza giusta e di annodava l’altro capo del filo all’altro foro del disco.
Ecco che la “piccola faccia” restava così ad ondeggiare dal ramo, offerta al vento.
Abbiamo trasferito il nostro problema reiterante al disco oscillante e lo abbiamo affidato al Vento, allo Spirito, perché lo risolva. Ce ne siamo sbarazzati.
Era questa una pratica che rimase abituale per secoli e secoli, se è vero che i romani continuarono a perpetuarla e diedero persino un nome al dischetto: “oscilla”, che vuol dire “piccolo volto”.
E dal suo movimento trassero addirittura un verbo –“oscillare”, appunto- attualmente usato in tutte le lingue del mondo.
I Latini, col tempo, fecero, degli oscilla, oggettini di migliore fattura, imprimendovi immagini ed appendendoli abitualmente alle architravi delle loro case. L’uso decorativo tuttavia spense, progressivamente nel tempo, il significato rituale ed infine il loro uso utile, al venir meno delle civiltà che l’avevano generato.