Martedì mattina, nell’aula magna dell’Ospedale Cervello, gli ospedalieri non erano tanti, malgrado la sala fosse gremita. Era presente solo qualche primario, poi: dirigenti istituzionali, promotori di associazioni di volontariato, molti medici del territorio, gente comune, studenti e, ovviamente, persone venute anche da molto lontano per ascoltare Prem Rawat.
Certo, in una normale mattina feriale di lavoro, non si lascia il reparto per una conferenza. Pertanto, mi permetto una sintesi, per gli operatori sanitari che non hanno potuto essere presenti e per gli altri assenti.
Il punto di vista istituzionale è il seguente: in Regione hanno adesso un piano quinquennale (in accordo a quelli nazionali ed europei) in cui i Presidi di diagnosi e cura dovranno occuparsi anche di prevenzione primaria. Cioè di coltivare il benessere degli individui. Si tratta di un lavoro in più, se consideriamo che i tempi, in ospedale, sono già saturi.
Oppure si tratta di un modo differente di interpretare il lavoro di ogni giorno?
Mr. Rawat, portavoce del Pledge to Peace di Bruxelles, ha detto: “Gli ospedali esistono per migliorare la qualità della vita, non per aggiustare le stupidità altrui”.
La burocrazia è stupida quando vuole risparmiare sulle statine aumentando i moduli da compilare, invece di dare tempo all’educazione alimentare ed al movimento, direi anzi: a favorire un patto d’intesa tra medico e paziente su questi impegni. Per ottenere risultati occorre competenza e tempo, per prescrivere una statina ci vuole mezzo minuto.
Ci sono livelli minimali. Il primario potrebbe, ad esempio, prendersi la responsabilità personale del perfetto stato dei bagni del suo reparto? Non è una cosa importante? Lo chieda ai ricoverati.
E ci sono livelli generali. Le malattie sono un fastidio di cui i medici devono occuparsi per delega del paziente? Sono accidenti casuali? Oppure indicano qualcosa nella vita personale del singolo individuo che vuole una risoluzione? Qualcuno ha avuto il coraggio di dire: “la prima medicina preventiva è conoscere sé stessi”.
Perseguiamo una Medicina d’eccellenza, ma la decliniamo in un ambito di consapevolezza sulla salute vaga, ordinaria, routinaria, automatica, ideologica.
Ok, il medico non è pronto a promuovere il benessere, per primo il suo. L’argomento non è contemplato nei test d’accesso all’università e, se è per questo, in nessun insegnamento teorico o training clinico. Il medico, in media, è più stressato della maggioranza dei pazienti sul territorio. Ciò è stupido.
Conoscere le linee guida è utile, orientare su di esse tutta la Medicina è sciocco. Il contenzioso tra pazienti e medici aumenta? Ovvio. È quello che ci meritiamo se non decidiamo, una buona volta, di prendere noi in mano la situazione. Ci vuole una piccola rivoluzione silenziosa dal basso: ospedalieri e medici di medicina generale che semplicemente cambino la loro personale comprensione riguardo il fine del proprio lavoro. Non ci vogliono nuove linee guida per una Medicina per la Pace. Ci vuole soltanto un cambio personale. Poi basterebbe semplicemente mettere un cartello “in questo reparto (studio, ambulatorio) la rivoluzione è in atto”.
Nella Medicina, la stupidità è mescolata all’intelligenza. Gli operatori lo sanno benissimo. I malati osservano cautamente da un punto di vista deresponsabilizzato. Gli operatori possono operare una scelta: scegliere di coltivare la stupidità o coltivare l’intelligenza. E questa scelta si deve fare per principio e poi cento volte al giorno. Ogni momento c’è una sfida individuale e la soluzione non sempre è l’applicazione di uno standard statistico sulla popolazione. Se non cerchiamo di essere davvero intelligenti, e cerchiamo di fare, con forza, la scelta giusta, lasceremo che questa Medicina resti consegnata in delega ad altri e ad un andazzo che non ci soddisfa.
Nel corso dell’evento sono emersi alcuni importanti indizi di “rivoluzione silenziosa in atto”, quando avviene che il buon senso cambi un’abitudine antica, quando si ascolta chi, normalmente, non ha voce in capitolo. Così, ad esempio, la “carta dei diritti dei bambini” ha modificato l’impostazione dell’assistenza nei reparti pediatrici. Adesso, nei nostri ospedali, ci sono persino insegnanti per far continuare le lezioni scolastiche ai degenti.
Ci sono traduttori per non udenti e aiuti specifici per non vedenti. Ancora è presto per parlare di un’educazione alimentare o della valorizzazione per i tanti modi efficaci di curarsi diversi da quelli ufficiali. Il rispetto umano, tuttavia, si insinua visibilmente ed è in aumento.
Ci fu un tempo –si dirà- in cui le strutture pubbliche erano posti da evitare per chi stava morendo. Oggi la Medicina Palliativa, oltre ad essere molto efficiente, è consapevole dei diritti dei morenti e vi sono reparti di Hospice che consentono la vicinanza continuativa dei parenti e celebrano il rispetto della dignità della vita sino alla fine.
Qualcuno del pubblico ha detto che l’ospedale è un luogo sacro. O forse ha detto che “potrebbe essere un luogo sacro”. Non ricordo. Ma non siamo forse noi che distinguiamo il sacro ed il profano nella vita? Possiamo ben considerare che ogni azione umana consapevole sia sicuramente sacra.
Infine, Medicina per la Pace è solo una frase. La pace non si può inventare, non si può costruire, visto che è connaturata in noi. “Pace” non c’entra nulla con la guerra. La guerra è fuori, nelle interazioni mentali distruttive e dentro le nostre cose irrisolte. Pacificare la vita non è secondario a nessuna circostanza esterna. È una scelta di campo personale. In Medicina ci tocca, non è un lavoro in più, può essere un’opzione di chiarezza e di forza da cui interpretare il lavoro.
Ciro D’Arpa, 2.6.2016